
Una città in riarmo



A Genova sono presenti decine di aziende che alimentano la macchina bellica con la produzione di armi, munizioni, mezzi militari, e prodotti/materiali che vengono poi utilizzati nei vari conflitti, fino ad arrivare ai molteplici servizi d’assistenza alle forze militari e di polizia.
Proprio il porto di Genova ospita uno dei principali snodi della logistica, non solo civile ma anche militare. Infatti, anche grazie alle lotte del movimento antimilitarista e dei lavoratori portuali, è emerso il coinvolgimento di diverse aziende nel traffico marittimo di materiale bellico: fra queste Spinelli, che fa attraccare le navi della compagnia israeliana ZIM, e il Genoa Metal Terminal che già in passato è stato obiettivo di mobilitazioni contro l’imbarco di armamenti per la compagnia saudita Bahri.
E ancora, recentemente, la nuova diga foranea è stata confermata come infrastruttura dual use (a scopo sia civile che militare), inserendo sempre più il porto di Genova nel piano di mobilità militare voluto dall’Unione Europea.
Truppe e materiale bellico non viaggiano solo via mare: la logistica e lo spostamento di tutte queste merci riguarda in modo sempre più evidente ed intensivo anche strade e ferrovie. E infatti il piano di riarmo europeo varato nel marzo 2025 sottolinea come la logistica di guerra (porto, strade, ferrovie e non solo) sia fondamentale per rendere l’Europa “pronta” ad un nuovo potenziale conflitto ma anche per far transitare più velocemente le armi verso l’Ucraina.
Il piano di riarmo europeo, l’impegno politico preso in sede NATO di aumentare la spese al 5% del PIL entro il 2035, la finta tregua in Palestina e la guerra in Ucraina, come tanti altri piccoli e grandi focolai di guerra nel mondo, ci dicono che la guerra è sempre più presente nelle nostre vite.
Questo a partire dai tagli che gli Stati stanno facendo sui servizi pubblici per finanziare il riarmo, passando per la condivisione totale dei nostri spazi di lavoro e di vita con il comparto militare, fino ad arrivare a tutto il bagaglio di violenza, distruzione e morte che ogni conflitto porta con sé sui territori che attraversa.
Con l’attivazione del nuovo sistema ferroviario automatizzato, Sampierdarena e TUTTI i quartieri del ponente cittadino, già colpiti a livello ambientale e sanitario a causa delle emissioni inquinanti delle navi e dei tanti stabilimenti industriali come l’Ex Ilva, vengono di fatto trasformati in possibili bersagli militari.
Nonostante questo scenario plumbeo,
questi ultimi mesi di mobilitazione in solidarietà alla Palestina, hanno dimostrato come “blocchiamo tutto” non sia solo uno slogan, ma possa essere una pratica efficace e ripetibile, dimostrando che non tutto è già scritto e che insieme possiamo lottare per trasformare
un presente di guerra in un orizzonte di liberazione.

Riceviamo e diffondiamo
Il 2 novembre 2025 è iniziato lo sciopero della fame dei prigionieri e delle prigioniere di Palestine Action rinchiusi nelle carceri britanniche. Palestine Action è un gruppo britannico di attivisti e attiviste che lottano contro il genocidio in Palestina, colpendo direttamente attraverso blocchi, danneggiamenti e sabotaggi la Elbit systems UK – colosso dell’industria militare israeliana, principale responsabile dello sterminio del popolo palestinese – e tutto il suo indotto (dalle assicurazioni alle banche) – ma non solo come il danneggiamento di due aerei militari presso la base RAF di Brize Norton, utilizzata per le operazioni militari a Gaza e in tutto il Medio Oriente. Grazie a queste azioni la Elbit ha subito milioni di danni tanto da chiudere alcune sue sedi in Inghilterra.
La lotta di Palestine Action ha messo in evidenza come il sistema coloniale israeliano come del resto la guerra hanno le loro radici produttive, e non solo, in Europa e in Occidente, che il colonialismo di insediamento è elemento fondante dell’Occidente e gli stati occidentali sono parte del sistema economico, sociale e politico che porta avanti la distruzione della Palestina ma soprattutto che, se la guerra parte da qui, è da qui che la si può e deve fermare. Vogliamo ricordare per inciso che la Elbit system ha un accordo di collaborazione con lo stato italiano e la Leonardo per 49 miliardi di euro per la realizzazione di un grande centro di formazione ed addestramento dei piloti di elicottero delle forze armate italiane e straniere (Rotary Wing Mission Training Center – Rwmtc) che sorgerà nella base militare di Luni (SP).
Su pressione di Elbit e di Israele, a luglio 2025, Palestine Action è stata messa al bando come “gruppo terroristico”. Con questo sciopero della fame i prigionieri, riuniti nel collettivo “Prisoners for Palestine” chiedono, fra le altre, la chiusura degli stabilimenti Elbit nel Regno Unito e la revoca della messa al bando del gruppo e la fine dell’utilizzo della legislazione antiterrorismo contro chi si oppone al genocidio.
L’organizzazione che sta supportando legalmente e pubblicamente lo sciopero, la CAGE International, infatti sottolinea che “l’incarcerazione di attivisti in base a poteri antiterrorismo non è un abuso della legge, ma piuttosto è lo scopo per cui queste leggi sono state create. L’antiterrorismo è sempre stato uno strumento per mettere a tacere il dissenso e criminalizzare coloro che sfidano la violenza dello Stato”e in questo caso specifico chi si oppone al genocidio. Il caso di Anan Yaeesh – rinchiuso ad oggi nel carcere di Melfi- di Ali Irar e di Mansour Doghmosh, accusati, dallo Stato italiano, di terrorismo per aver partecipato e/o supportato la resistenza palestinese ne è uno esempio in Italia. Come lo è anche il (futuro) DDl Gasparri con l’equiparazione antisionismo/ antisemitismo. Ma il popolo palestinese con la sua resistenza ci ha insegnato qual è la parte giusta della storia e che è possibile interrompere e opporsi ai meccanismi di colonizzazione e distruzione, vincendo.
Ricordiamo che sono sei le persone attualmente in sciopero nel Regno Unito (Qesser Zuhrah, Amu Gib, Heba Muraisi, Jon Cink, THoxha e Kamran Ahmed), ad esse si è aggiunto un compagno anarchico – Luca Dolce detto Stecco – prigioniero nel carcere di Sanremo e un compagno americano Jakhi McCray.
VOGLIAMO ESPRIMERE TUTTA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI E ALLE PRIGIONIERE IN LOTTA E IN SCIOPERO DELLA FAME E AD ANAN, ALI E MANSOUR.
PALESTINA LIBERA!
o di come la solidarietà si è trasformata in un investimento economico neoliberista e in uno strumento di ricatto in Palestina e non solo
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Questo testo nasce da un’iniziativa che si è svolta a Genova nell’ aprile 2024 e di cui porta il titolo. La discussione voleva abbozzare una breve riflessione critica sulla funzione della cooperazione allo sviluppo (ma anche degli enti caritatevoli, ONG, ecc.) come strategia ufficiale (o latente) della politica estera degli Stati imperialisti, senza la pretesa di esaustività, vista l’ampiezza della tematica.
Attraverso i contributi di un compagno del collettivo Hurriya! di Pisa e di una compagna di GPI, il testo prova a fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento sulla solidarietà “umanitaria” quale fenomeno ampio, collaterale (e il più delle volte in combutta) alle politiche di predazione
economica e di controllo del territorio.
Dalla quarta di copertina
Con l’indebolimento della militanza internazionalista, il grosso della solidarietà praticata in Occidente si è progressivamente piegato ai progetti di cooperazione allo sviluppo capitalista.
Si sono affermate nuove figure ibride (operatori umanitari,cooperanti “dal basso”, ecc) per cui carriera professionale e bisogno di reddito si fondono spesso con l’attivismo politico e che accettano le condizioni dei finanziatori e degli Stati (occupanti o meno) in qualsiasi tipo di intervento.
La lotta contro il nemico comune per una trasformazione collettiva è stata sostituita con progetti di cooperazione economica completamente compatibile (e talvolta in sinergia) con le politiche di colonizzazione e predazione economica di Stati e Capitale.
Se in Palestina la rinuncia al diritto al ritorno è una condizione necessaria per accedere agli aiuti internazionali, in Italia chi lavora nel sistema di accoglienza è costretto a collaborare al disciplinamento degli immigrati, alla società dello sfruttamento e dell’alienazione.
Avere ceduto tanto terreno comporta, per chi sceglie di agire al di fuori della logica dei diritti umani che relega gli oppressi al ruolo di vittime, l’essere criminalizzato come nemico della democrazia.
